Vita di Cristo, storie di poveri
La cinematografia italiana d’ispirazione cristiana ha sempre presentato la figura di gesù in stretto rapporto con gli “ultimi della terra”, destinatari privilegiati del messaggio evangelico.

di Renzo Salvi
è nato a Cermenate (Como) nel 1950 e vive a Cucciago. Laureato in Scienze Politiche all’Università Statale di Milano, dal 1978 lavora in Rai; attualmente è Dirigente e CapoProgetto di Rai Educational. È stato autore e curatore di programmi a carattere sociale (quali Il filo del lavoro) per RaiTre Lombardia, del quotidiano Ci vediamo alle 10 per RaiUno, del programma per bambini L’Albero Azzurro (RaiUno e RaiDue), di inchieste di campo culturale e di programmi religiosi (Città senza mura, col Cardinal Carlo Maria Martini; Le ragioni della speranza, con monsignor Bruno Ravasi), oltre che di programmi radiofonici (Segni per tempi nuovi, Chiamati a confronto) con padre David Maria Turoldo. In ambito editoriale ha pubblicati, dal 1972, articoli, saggi e testi di area sociologica, pedagogica e di dibattito politico e religioso. Il suo ultimo libro Se non la smetti ti spengo (Cittadella Editrice, Assisi 2001) tratta di bambini, comunicazione televisiva e società.

Cristo e i poveri. Nel corso d’un secolo, e più, il cinema ha trovato nel cristianesimo molte occasioni di comunicazione e di produzione artistica: secondo modi, per altro, e ispirazioni diverse tra loro; secondo “vocazioni” diverse, quasi: ora in chiave di meditazione, ora – spesso, anzi – con stili e modi non remoti dal trionfalismo, talora anche secondo canoni di qualche agiografia (le vite di santi o i grandi eventi di mistica sociale quali le apparizioni .).
Ma quando il cinema, anche il cinema, s’è avvicinato in maniera più diretta, meno mediata, apparentemente “sine glossa” all’ispirazione cristiana, e soprattutto se con sguardi – per scrittura o per regia – di qualche genialità artistica, Cristo e i poveri si sono rivelati il tema specifico e l’approdo obbligato: Cristo e i poveri, non intendendo con quest’ultimo termine solo quella povertà materiale che dovrebbe più propriamente dirsi miseria; Cristo e i poveri, essendo proprio i poveri – gli emarginati, gli ultimi della Terra . – i destinatari privilegiati del messaggio di salvezza e di riscatto del Vangelo stesso.
Traguardando da quest’ottica la vicenda della cinematografia, soprattutto italiana, di radice o con rimbalzi cristiani, si può andar oltre la storiografia cronologica ed al di là dei pur utili quadri generali dell’enciclopedia; ci si può cimentare in riletture interpretative. Magari procedendo per opzioni di memoria e di emozione, in scorrimenti a ritroso nel tempo; magari per scoprire in quale modo ciascuna opera sia, oltre che la proiezione d’un fondamento di fede, la figlia di un tempo e di una “mediazione” culturale del Vangelo in momenti, diversi tra loro, della storia e della società, ed abbia, poi, una ricaduta nella cultura sociale, del popolo e delle aree intellettuali, di quella e di altre, successive, epoche storiche: sino a delineare una lettura tra fondazioni, genesi culturali ed esiti e impatto sociale, rispetto al momento storico di “edizione”, distribuzione e fruizione delle diverse opere cinematografiche

All’indietro nel tempo: da Olmi a Pasolini.
Un quarto di secolo fa, all’incirca, si incontra l’affresco cinematografico dedicato da Ermanno Olmi ai “suoi” umili ed ultimi della piana bergamasca. Realizzato nel 1977, L’albero degli zoccoli è “Palma d’oro” a Cannes nel 1978.
Il film, ambientato in una cascina del bergamasco tra l’autunno del 1897 e la primavera successiva, narra di alcune famiglie contadine che vivono, in regime di mezzadria, nella fattoria e “sulla terra” di un possidente.
Nello scorrere della trama “al principio dell'autunno si seminano i campi, si restaurano le case e si dividono i raccolti; d'inverno c'è meno lavoro: si chiacchiera, si raccontano favole ai bambini, si intrecciano rapporti sentimentali fra i giovani; in primavera si svolge la sagra del paese. Intanto dentro ogni famiglia avvengono piccoli fatti importanti: una vedova con sei figli e nonno a carico è disperata perché sta morendo la sua mucca, ma le sue preghiere propiziano il miracolo della guarigione; un capofamiglia che si è lasciato convincere dal parroco a mandare a scuola il suo figlioletto intelligente e la cui moglie ha appena messo al mondo un'altra bocca da sfamare, risolve il problema degli zoccoli facendoglieli con le proprie mani da un tronco del padrone tagliato di frodo; un altro capofamiglia ha nascosta nello zoccolo del suo cavallo una moneta d'oro trovata per strada e quando scopre che non c'è più, per la rabbia bastona il cavallo, finché l'animale si rivolta e lo insegue dentro casa; due sposini partono sul barcone alla volta di Milano, per andare a ricevere la benedizione della zia, suora, che li convince ad adottare un orfanello; il nonno, che conosce un trucco per concimare meglio il terreno, come tutti gli anni cala in paese con la prima cesta di pomodori maturi. Accade anche, infine, che il padrone scopra il colpevole del furto del tronco e lo scacci dalla fattoria con tutta la famiglia” .
Il dibattito culturale (e politico) che accompagna l’uscita del film nelle sale, riprende i temi – al fondo vieti ed assai di maniera, soprattutto se guardati dall’oggi – della contrapposizione tra modalità supposte “laiche” di stare nella storia da parte dei poveri e modalità riconducibili invece a culture sorgenti nell’alveo del cristianesimo. I climi sociali dell’epoca, di movimentismo, di slancio delle ideologie e di internazionalismo militante, tendono a ribadire la lettura ed in qualche modo a condannare l’atteggiamento subalterno, integrato e di acquiescenza che caratterizza quei poveri e quei miseri (cattolico-bergamaschi) nel nome di una accettazione del quadro storico dato come unico possibile, come “naturale” e – all’estremo – espressione di una sorta di volontà divina.
Singolare è l’attribuzione del termine “cattolico”, tout court, all’insieme di questa subalternità psicologica, sociale, culturale e politica, pur in anni che già avevano registrato la presenza nella Chiesa di Giovanni XXIII e l’impeto del Concilio Vaticano II, dopo che, da tempo, s’era frantumata, in Italia, la cosiddetta unità politica dei cattolici, e soprattutto in un contesto storico – la prima metà degli anni Settanta – che vede buona parte del progressismo movimentista guidato anche da leaders, e composto alla base, da persone che sono non solo di formazione ma decisamente di pratica religiosa cattolica e di comportamento sociale cristianamente ispirato.
La Storia del cinema, di Goffredo Fofi, Morando Morandini e Gianni Volpi, ancora annota che “. oggetto di un’ampia polemica culturale in cui – pur non contestandone i valori estetici, lo splendore delle immagini, l’intenso lirismo, la sapienza narrativa – fu vivacemente messa in discussione la sua ideologia, L’albero degli zoccoli è un solenne e sereno poema della memoria sulla terra, il lavoro dei campi, le gioie e gli stenti del vivere rurale. Più che nell’abbandono oleografico all’elegia nostalgica, in una presunta “morale della rassegnazione” e in un’assenza della storia e della realtà sociale (che, invece, sono presenti specialmente nella seconda parte, sia pur di scorcio, con la pudica arte del sottovoce che è propria di olmi), il suo limite è in un eccesso idillico, nell’occultamento del versante in ombra del mondo contadino, quello della grettezza, dell’avidità, della violenza, degli odi feroci, qua e là indicati ma in cadenze bonarie”
Ma anche in questa rilettura, effettuata a distanza di anni, de L’albero degli zoccoli e dei suoi miseri, viene colto – o forse vi viene sovraimpresso – il clima del romanticismo rasserenante. D’altro canto, e sin da allora, neppure i cristiani socialmente impegnati sulle più avanzate frontiere della storia – o, come allora si diceva, del dialogo col marxismo e delle lotte – tentano di intravedervi dell’altro.
Quella novella d’ambiente del passato pare essere sempre osservata con sguardi interpretativi altrettanto datati; col che si colgono tutti gli elementi – veri – della rassegnazione e della subordinazione vissute come dato di natura mentre non si percepiscono altre parti del comportamento ed altri elementi che, a ben osservare, pur esistono in Ermanno Olmi e in quel suo film. C’è un intreccio, infatti, in quel comportamento degli ultimi, tra “pazienza” (il patire, il sopportare .) e “resistenza” (il continuare comunque .) che rimanda a passi evangelici precisi e a loro imprecise traduzioni, perché in realtà, nel Vangelo, termini ed i concetti del sopportare e del pazientare si fondano, condividendola, nella radice aramaica e greca del “resistere” e del “fronteggiare”.
Da quegli ignari contadini delle piane e delle Prealpi, certamente orientati a sopportare – da secoli, e persino ad opera dei loro parroci – viene, in realtà, anche la testimonianza di chi comunque “resiste” e comunque “ricomincia” . Pur in un quadro di società classista e di perdurante ingiustizia sociale. Non c’è – anche questo è vero – l’epopea delle lotte, cantata in pellicola, ed in relazione ad un quadro sociale non dissimile, nel Novecento (atto primo) di Bernardo Bertolucci, ma neppure si tratta della mera narrazione di un’epopea di vinti. Non lo è – precisamente – nel nome della radice cristiana di quella socialità.

Un Vangelo pasoliniano e . giovanneo
Uno scorrimento all’indietro nel tempo – rispetto al 1978 – e si è ad Assisi: al 4 ottobre 1962. La data è nota alla storia maggiore del mondo perché segna la prima uscita di un Pontefice romano dal Vaticano e, contemporaneamente, dalla città eterna, dopo anni ed anni: dopo l’autoreclusione successiva alla Breccia di Porta Pia ed al vulnus inferto al potere temporale dei Papi – dovremo tornarci – che nessun protocollo dei Patti Lateranensi aveva sanato davvero.
Papa Giovanni va, in preghiera, quel giorno, sulla tomba di Francesco e torna a posare lo sguardo su quegli affreschi di Giotto (se sono di Giotto) nella Basilica superiore e su alcune immagini di Cimabue, nella Basilica inferiore, che aveva visitato l’ultima volta il 24 agosto 1957, nel suo passaggio – ancora come Patriarca di Venezia – ad Assisi in veste di relatore al Corso di studi della Pro Civitate Christiana, in Cittadella.
In quel Corso aveva svolto una relazione su “Lo Spirito Santo principio di vita soprannaturale”. Poche immagini filmate, in bianco e nero, mute, lo documentano che saluta e promette ritorni. Il 28 ottobre 1958 diviene Papa. In qualche modo il ritorno ad Assisi scivola ad una data che, per sua scelta, fissa un evento storico.
In Assisi Papa Roncalli ritrova l’antico amico (ed allievo) degli anni del Cardinal Ferrari a Milano: quel don Giovanni Rossi fondatore ed animatore della Pro Civitate e della Cittadella. E proprio in quella Cittadella, ospite di quella associazione, per un singolare rimbalzo degli eventi, si trova, quel giorno, Pier Paolo Pasolini: vi si è, anzi, in qualche modo, a sua volta autorecluso, serrato in camera, un po’ ascoltando e un po’ prendendo le distanze dallo scalpiccio dei pellegrini festanti. Legge, a scorrimento, il Vangelo che si trova, in copia, in tutte le camere per gli ospiti della Cittadella; sospetterà persino che si tratti di una sorta di provocazione perpetrata da don Rossi e dai suoi volontari, anche se, in fondo, si trova in Assisi proprio per parlare di un film su Cristo che è tra i progetti della Pro Civitate sin dalla fondazione .
E se può sembrare strana la ricerca d’un contatto tra don Rossi e quell’intellettuale così diverso (comunista, omosessuale .) ed apparentemente così remoto dal cristianesimo, è anche da dire che da sempre la Cittadella è un luogo di dialogo con i cosiddetti “lontani”, ovvero “con chi crede di non credere”.
Mentre il treno di papa Roncalli rientra a Roma, Pier Paolo Pasolini dirà a don Rossi ed ai Volontari della P.C.C. di essere stato “intrigato”, quel giorno dal Vangelo di Matteo. Anche il titolo dell’opera pasoliniana nasce in quelle ore. Il regista annoterà poi – scrivendo Le regole di un’illusione –: “D’istinto allungai la mano al comodino, presi il libro dei Vangeli che c’è in tutte le camere e cominciai a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro vangeli, quello secondo Matteo. E dalla prima pagina giunsi all’ultima – lo ricordo bene – quasi difendendomi, ma con gioia, dal clamore della città in festa. Alla fine, deponendo il libro, scoprii che fra il primo brusio e le ultime campane che salutavano la partenza del Papa pellegrino, avevo letto intero quel duro ma anche tenero, così ebraico e iracondo testo che è appunto quello di Matteo.
L’idea di un film sui vangeli m’era venuta altre volte, ma quel film nacque li, quel giorno, in quelle ore. E mi resi conto che, oltre alla doppia suggestione – della lettura e della colonna sonora, di quelle voci e di quelle campane – già c’era nella mia testa anche un vero nucleo e abbozzo di sceneggiatura. L’unico, dunque al quale potevo dedicare quel film non poteva essere che lui, papa Giovanni. E a quella cara “ombra” l’ho dedicato. L’ombra che è la regale povertà della fede, non il suo contrario” .
Un documentario realizzato nell’estate del 1963, con la regia e la conduzione in video di Pasolini stesso, documenterà un successivo viaggio in Terrasanta in cui Pasolini è accompagnato da don Andrea Carraro, biblista, uno dei non molti preti che è tra Volontari della Pro Civitate.
In quel viaggio molti ambienti, luoghi e paesaggi deludono le attese del poeta: sono troppe le immagini della modernità; sinché a pochi chilometri da Nazareth, di fronte alla figura di un vecchio contadino palestinese che inforca e getta nel vento spighe di frumento a mucchi per separare i chicchi dalla paglia e dalla pula, Pasolini commenta: “Ecco . in fondo era quello che cercavo, con grande speranza di trovare: un mondo biblico arcaico”; e aggiunge: “Questo sole, la sterpaglia, il vento sono elementi perfetti per la figurazione di una parabola evangelica”.
Don Andrea aggiungerà, in loco (dunque in presa diretta), offrendo al regista una suggestione più precisa: “San Giovanni Battista si richiama a questa scena, qui nel Giordano, quando apostrofa e richiama gli scribi e i farisei che si presentano a lui; e li richiama alla loro responsabilità: saranno presi come frumento e gettati in aria; la pula si disperde, e sarà bruciata, e rimane il grano buono. è questa scena”.
In ogni caso – si tratta sempre di una sottolineatura di don Carraro – il viaggio risponde, fondamentalmente, “all’esigenza di assorbire lo spirito di una situazione, per poi magari ricostruire la situazione, ripensarla e reinventarla”.
è quello che accadrà: la piccolezza, la minorità, talune dolci asprezze che Pasolini si annota – in audio, sui suoi appunti per fogli rabberciati, a memoria – di fronte al mare di Galilea, sul monte (un colle, in realtà .) delle Beatitudini, a Nazareth e altrove, diventeranno una “cifra” nella realizzazione del film. Il Vangelo secondo Matteo troverà, per la sua realizzazione, altre ambientazioni ed altre scenografie di fondo, ma la raccolta di immagini e di sensazioni di quel viaggio e di quell’insieme di eventi incrocia le poetiche pasoliniane in quell’opera (inattesa) e da quell’opera in poi. Gli Apostoli, le folle sono volti di umili e di ultimi che incontrano e conoscono – da popolani in cui risuonano tuttavia le Scritture – un Cristo sùbito e compiutamente consapevole di sé (sino alla croce) e “rivelato” esplicitamente – in quanto Figlio di Dio – ai suoi discepoli e a tutti. Centrale nel film è, perciò, un Cristo non tenero, capace di spiritualità nelle concretezze, venuto soprattutto (anche in questo emerge Matteo) “a portare . la spada”. Ed il grido della sua umanità, sconfitta in apparenza sul Golgota, è nell’urlo silente d’una Maria, anziana, al Calvario, interpretata dalla madre di Pasolini, attrice per quella sola occasione.
Il film è, in quegli anni “conciliari” per la Chiesa e per il mondo, l’espressione di un cristianesimo in ricerca: sarà fischiato dai fascisti alla prima proiezione – nel 1964 – durante la Mostra del cinema a Venezia; sarà premiato dall’Office Catholique Internatonal du Cinéma. Ma soprattutto Il Vangelo secondo Matteo dice, allora e seguita a dire adesso, secondo modalità di aspra e di dolce poesia, di un mondo che è già mutato da millenni per l’avvento della fede cristiana, e che di nuovo, proprio in quegli anni, sta aprendosi ad altre speranze grazie ad una rilettura in atto, nuova e però di profonda radice ed assolutamente “tradizionale”, della Rivelazione cristiana dentro la storia.

“Gli ultimi”: una “resistenza” evangelica
Solo pochi anni prima – scorrendo di nuovo a rovescio la storia – proprio Pier Paolo Pasolini aveva recensito, da critico cinematografico, il film Gli ultimi, realizzato per impulso e su testi di David Maria Turoldo, frate servita, poeta e predicatore, figura che già era stata non secondaria nella Resistenza milanese.
Alla fine degli anni Cinquanta padre Turoldo volge in soggetto cinematografico ed in sceneggiatura, un suo racconto – Mia terra, addio – che sarebbe stato edito solo anni dopo (nel 1980); il film è affidato alla regia (quasi esordiente) di un critico cinematografico di altra matrice culturale – Vito Pandolfi si professa marxista – e viene prodotto con un cast di attori non professionisti. L’anteprima, in pre-montaggio, avviene nel 1962; la presentazione in forma definita nel 1963.
La vicenda è ambientata nel Friuli degli anni Trenta: nella miseria, nelle contraddizioni e nei valori di fondo vissuti da quelle popolazioni contadine. Vi si narra la salita di coscienza di un bambino, costretto a crescere in fretta e a misurarsi con la durezza della vita e con i suoi fantasmi – identificati in un grande spaventapasseri – e vi viene inscenata una quotidianità fatta di molti stenti e di qualche tenerezza, sia nei rapporti tra pari (il bimbo protagonista Checo e i suoi compagni) sia tra generazioni, di piccole intuizioni di apertura alla vita e di sconfortanti scoperte della morte.
Pier Paolo Pasolini annota che Gli ultimi “è un film monotono e grigio, ma carico di una esasperata coerenza col proprio assunto stilistico, e quindi profondamente poetico. Non per niente non c’è un’inquadratura girata col sole: la luce è sempre quella dell’inverno con le nuvole alte, compatte, che, a modo loro, sono assolute come il sereno. E il paese è sempre immobile, in purissimo bianco e nero, e la campagna nuda, disegnata con una punta di ferro. La visione delle cose è sempre frontale, e, nel tempo stesso ristretta, quasi che anche lo sguardo che un occhio, può, infine, gettare liberamente al mondo, fosse dominato dall’obbligo morale alla piccolezza e alla rinuncia. è evidente il sentimento religioso di padre Turoldo, che impone questa parola, e dice: “Se nostalgia per il mio paese e la mia infanzia ci deve essere, non deve però abbellirli: deve anzi ridurli all’estremo, e la sua dilatazione deve solo avvenire nel senso della profondità”. Vito Pandolfi ha eseguito con assoluta severità estetica questo obbligo religioso quasi nevrotico. E tutti i personaggi tendono così ad assimilarsi ad esso: magri, stremati, malati, anonimi, sostenuti solo da un soffio di spiritualità quasi faziosa. Piano piano la suite della vita nel paesello pedemontano, con le sue case di sassi grigi e le sue strade bianche, nella luce accecante dell’aria di neve, diviene iterazione, litania: la serie degli episodi si fa ossessiva, e i significati della povera vicenda umana trapassano a una simbologia tanto più povera di ornamento quanto più ricca di un quasi fisico dolore” .
Ed in effetti si tratta dell’epopea della povera gente che mostra di sapere la solidarietà: il bimbo costretto a lasciare la scuola – un fratello muore in miniera, emigrante a Charleroi – approda ad un lavoro realizzato insieme dalla comunità: ad un lavoro “in comune” che pare, in chiusura del film e del racconto/matrice, sottratto al caporalato delle attività “prese a giornata”; il cristianesimo forte, rude, senza fronzoli e scevro da credenze aggiunte (poche le “immaginette” in quelle case .) si lega col proseguire della vita e col “far fronte”.
“La categoria spirituale della “resistenza” – affermerà, per altri contesti, padre David Maria Turoldo – è una categoria essenzialmente cristiana. Difatti il Cristo è il segno di contraddizione al sistema, cioè è quello che “dice contro” il sistema; anzi, il Vangelo dice “segno di contraddizione e di rovina” perché poi diventa anche scandalo . Perciò il cristiano è colui che si trova sempre in uno stato di impatto col sistema. Ecco da dove nasce e si nutre la mia Resistenza. In questo senso io dico “partigiano”, in questo senso dico “resistente”: perché la Resistenza cederà con la vita, finirà con la vita”
Il film, negli anni Sessanta e sin oltre gli anni Settanta, girerà per proiezioni serali di parrocchie e cinecircoli, e per associazioni, gruppi di base e comunità cristiane dell’aggiornamento conciliare e del dissenso . Sarà parte del clima e della spinta conciliare che rinnova in quel tempo la Chiesa e le culture che in essa si compongono e confliggono, contribuirà ad innescare, senza enfasi, senza clamori da cinefilo o pseudopolitici, i confronti e i dibattiti sugli ultimi della terra e sull’emarginazione. E ancora circola, a documentazione della testimonianza di vita e di poesia del suo autore.
Nel 1993, ad un anno dalla scomparsa di padre Turoldo, venne diffusa una versione homevideo in catalogo alla SanPaolo Audiovisivi ; ora, a distanza di un decennio, un restauro è in corso con la supervisione di Ermanno Olmi.

Un “Christus” tra culture e società
In questa stessa contingenza temporale – oggi, dunque – riemerge, per vie diverse, un ulteriore film italiano su Cristo e il suo Vangelo: un film che precede tutti i titoli sin qui ricordati e che induce un ulteriore percorso a ritroso, fin verso gli inizi di quel secolo che s’è da poco concluso.
La vicenda ideativa e produttiva del Christus realizzato dalla Cines-Film tra il 1914 ed il 1915, per la regia di Giulio Cesare Antamoro, e le notizie recenti della sua ricomposizione digitale, sin all’edizione in Dvd, sono ricordate in altre pagine di questa pubblicazione. Ed in altre ancora si dà conto del ritrovamento – per casualità strane davvero – e dell’esperienza didattica di restauro conservativo, di una copia in pellicola (9 mm.) della riduzione del medesimo film realizzata per la Pathé Frères, ad opera di Ferdinand Zecca; con titoli, nella fattispecie, in lingua castigliana.
In relazione a questo Christus, dunque, rimangono da ricordare solo pochi elementi: da un lato, le motivazioni di natura culturale e di contingenza politica che ne determinarono la realizzazione, dall’altro l’impatto della diffusione di quest’opera nella cultura religiosa popolare di quegli anni e di anni successivi, anche grazie alla versione ora definibile – per comodità oltre che un po’ da addetti ai lavori – “taglio Zecca”.
Il contesto della decisione editoriale e produttiva, poco dopo il 1900, si caratterizza in sede storica e politica per una stabilizzazione avvenuta dell’unità nazionale; si è nell’Italia umbertina, segnata dal giolittismo in politica e dall’arroccarsi extra-istituzionale ed extra-elettorale di tutta l’area cattolica del Paese (associativa, culturale, sindacale e politica) nel nome di un Non expedit pronunciato a radicale sottolineatura di una non/accettazione della presa di Roma manu militari ad opera “dei Piemontesi”.
Culturalmente e materialmente si vive nel clima, immaginifico, del “Progresso” come grande chiave interpretativa e come strumento di modernizzazione e di sviluppo della società tutt’intera: “c’è il telegrafo, ch’è senza fili / c’è il fonografo, che a mano va .”, ricorderà una canzoncina, anni dopo; e c’è qualche ferrovia; e l’elettricità a illuminare alcune strade cittadine; ci sono l’industria pesante (metallurgica e meccanica) e quelle che a monte – l’estrattivo-mineraria – e a valle (utensileria, tessile.) determinano il quadro d’un Paese non più solo agricolo.
Il mito del progresso unifica le fasce più diverse della borghesia laica, anche quelle che si volgeranno al primo socialismo umanitario: il Ballo Excelsior già lo ha celebrato – sul palcoscenico del Teatro Alla Scala, a Milano – al sorgere del primo anno del Novecento. E nel campo della nuova arte, il cinema, un kolossal del muto qual è Cabiria replica il medesimo messaggio, illustrando le figure dell’eroismo umano contro i riti sacrificali delle (non solo antiche) religioni. I testi, ovvero le didascalie, impaginate in cartelli di grafica liberty, sono di Gabriele Dannunzio.
Di fronte a Cabiria, Christus è la replica cinematografica “cattolica”: altrettanto colossale per mezzi, capace – per dimostrazione – di tecniche ancora più moderne, con movimenti di masse consistenti ogni oltre attesa, con attori di fama (teatrale e cinematografica). Inoltre si parla di finanziamenti sorgenti – per la produzione – dall’aristocrazia “nera” romana, per definizione “papalina”; si parla di contrasti (di interpretazione culturale? Teologici?) tra il regista, conte Antamoro, e il barone Fassini, direttore della Cines; infine è documentata la colonna sonora, da eseguirsi dal vivo in corso di proiezione (con solo pianoforte o con orchestra), composta dal maestro don Giocondo Fino.
Costruito per episodi, quadri e frammenti, il Christus raccoglie lo stile dei “misteri” religiosi (scenici e liturgici) di espressione popolare e li ripropone ad un popolo che si avvicina alla nuova arte del comunicare: “.il film riportava dovunque un successo strepitoso .”, si ricorda, e ancora: “sarà considerato di gran lunga il più completo di tutti i film religiosi, al punto da venire ancora proiettato vent’anni dopo in Palestina, nel periodo della Pasqua, fra l’esaltazione mistica della folla” .
La diffusione minima, parrocchia per parrocchia, associazione per associazione, non avviene però prevalentemente con la versione originale del film, ma con la sua riduzione – vagamente educational – realizzata, nel formato Pathé Baby, da Ferdinand Zecca. La versione e, meglio, “le” versioni sintetiche di Zecca si configurano – lette dall’oggi – come una riduzione del film al Vangelo sine glossa, ma anche come una semplificazione del racconto alla pura vicenda cronologica derivata scenicamente dai Vangeli.
Più analiticamente: il montaggio ridotto Pathé del Christus rinuncia alla suddivisione in tre Misteri e lo struttura invece in due parti: La Vita di Cristo – sino all’Ultima Cena – e Passione, Morte, Resurrezione.
La prima parte risulta “depauperata” soprattutto dei grandi sfondi scenici d’ambiente naturale e storico: in particolare si eclissa quell’incredibile, inatteso Egitto autentico del ‘914/15 (ridotto a poche scene, ineludibili: le piccole sfingi di Karnak, la grande sfinge, la piramide); scompare la ricostruzione del mondo imperiale romano (con Cesare Augusto .); sono ridotte all’essenziale anche le situazioni di vita sociale prossime – nel montaggio d’origine – all’Annunciazione e talune visioni generali della prima salita al Tempio (Gesù dodicenne). I miracoli sono quantitativamente meno numerosi.
Muta però, in questo scorciare, il montaggio: Ferdinand Zecca e i suoi collaboratori privilegiano, di fatto, i campi lunghi di ripresa rispetto ai lunghissimi, i piani (poi definiti) “americani” alla figura intera, i primi piani rispetto a quelli medi. Ne viene esaltata la dinamicità della scene di folla e l’andirivieni incrociato, non per movimenti corali, di molte persone all’interno dell’inquadratura fissa: a Nazareth, nei gruppi di bambini del “sinite parvulos”, nell’ingresso trionfale in Gerusalemme, nell’imposizione della corona di spine, nel “tradimento” di Pietro . Sino al notevole montaggio alternato, costruito con riprese realizzate in sequenza, della salita al Calvario.
Lo stesso iterarsi dei simboli, diluito nel film di Antamoro nella durata di novanta minuti, risulta così più ritmato in questa versione: dalla figura del demonio sempre emergente da pietre, al formarsi “casuale”, sottolineato in ripresa, come segno e premonizione, delle grafiche della croce: alle spalle di Gesù dodicenne, in un legno spezzato sotto il piede di Giuda, nel genuflettersi degli Angeli chiamati (un po’ a sorpresa) alla preparazione della tavola nel Cenacolo .
L’eliminazione, infine, dei momenti di raccordo tra scene, presenti nel montaggio originale, determinano persino – nel “taglio Zecca” che non supera i trenta minuti – un apparente montaggio ellittico dei tempi, singolarmente vicino ai gusti della nostra epoca e comunque al montaggio di un’arte cinematografica più matura. Insomma il “taglio Zecca”, sul quale può ben esercitarsi l’orrore del cinefilo per le tante immagini sacrificate, appare, sempre osservando dall’oggi, persino molto televisivo.

Una “Biblia pauperum” nel riprodursi della società civile
Per questa via si configura una Biblia pauperum (la prima) del Novecento cinematografico; per questa via il film di Antamoro supera i confini nazionali e si allontana dalla sua radice da Non expedit e da (italica) questione romana. Al di là delle intenzioni politiche – sia quelle verificate che quelle ipotizzabili – dei suoi primi ideatori, il film fa davvero da capostipite di uno stile e di molti raccordi al sociale che si ripeteranno per Gli ultimi , Il Vangelo secondo Matteo e L’albero degli zoccoli.
La sua storia di pellicola sarà una peregrinazione, quasi a ripetere il mandato evangelico: “Andate . Predicate .”. Peregrinerà nella versione Pathé Baby di Zecca o in originali via via sempre più consunti e frantumati; in copie distribuite in visione o noleggiate; “intera” o rabberciata; affittata – addirittura – per episodi (ovvero per Misteri) secondo che la Nascita non fosse prevista nella pastorale parrocchiale di Quaresima o che quella d’Avvento preferisse evitare la Fuga in Egitto, l’Adultera o la Cacciata dei mercanti .
In ogni caso il film servirà – è servito – per suggestione o come supporto alla catechesi, a generare formazione di coscienze o eventi di società; si è legato (ma anche di questo si scrive in altre pagine) alle realtà concrete del territorio per iniziative inattese o almeno inusuali per l’oggi.
A conferma – e questo forse può bastare come chiusa – di quell’attenzione per la società civile, per gli ambiti delle comunità, per gli spazi culturali delle democrazie intermedie e territoriali, che è tipica delle culture generate nell’ambito o in relazione al Messaggio evangelico: un’attenzione che nessuna Televisione e nessun malinteso localismo possono, oggi, surrogare.