Ul Vedrina e i Diavoli Neri

di Emilio Magni
62 anni, giornalista professionista, è stato redattore de Il Giorno.

Per ben due volte quell’irripetibile personaggio che fu Alberto Airoldi, rallegrò le nostre estati degli anni Cinquanta, ovvero di quando eravamo ragazzi con l’occhio già più che pronto a cogliere piaceri, allegrie e audacie della vita. L’Airoldi metteva in piedi la “Passione” che era impresa importantissima, di valore alto in campo culturale, ma sembrava pensata proprio per far divertire noi ragazzi di Erba Alta che partecipavamo in massa. Le ragazze interpretavano gli angeli e salivano in cima alle colonne dove stavano in bilico facendo finta di suonare lunghissime trombe. Noi centurioni che in quell’atto eravamo a riposo, andavamo a prenderle mentre scendevano la pericolosa scala di ferro. Carlo Mauri, macchinista e fonico, piazzato proprio sotto le colonne da dove guardava tutto grazie a una piccola feritoia, ogni sera commentava: “Oh, bagaj, giô i mann dal nichéll”. Il dialetto del Carluccio era perfetto. Non per niente era fratello del Gianfranco, ul Vedrina, quello che faceva Giuda. Una sera a costui capitò di essere quasi sbranato dai cani che inseguivano il suo suicidio. I “Diavoli neri” si slegarono e ul Vedrina dovette correre, senza lenti, giù fino nel bosco incomodando le numerose coppiette che, approfittando dei loro momenti di pausa si erano, come sempre, appartate. Quando arriva il terzo atto in platea si giravano le sedie perché il Golgota era sul lato opposto del palcoscenico. Quelli delle ultime file (a poco prezzo) facevano “cippilimerlo” a quelli delle costosissime prime. Così Airoldi metteva in atto, seduta stante, quanto Gesù aveva ammonito poco prima, davanti al Sinedrio: “Gli ultimi saranno i primi”. Noi centurioni ci divertivamo, nel finale, a fare incazzare Elio Jotta, mirabile interprete di Gesù. Siccome tutto era registrato e i tempi erano svelti, ci capitava di non fare in tempo a mettere le zeppe nel buco quando infilavamo il palo della croce. E lo Jotta era su, scosso dalla brezza che spirava sempre forte e che faceva dondolare la croce. Il nastro registrato raccontava con enfasi: “Padre perdona loro che non sanno quello che fanno”, come vuole il Vangelo. Jotta, spaventato, diceva altre cose, si incazzava di brutto e la gente commentava: “Ma guarda come è bravo Jotta. Un’interpretazione così di Gesù è davvero grande”. Poco prima della crocifissione, quando San Pietro raccontava la terza fola e il gallo faceva “chicchiricchì”, noi pensavamo al Gügia. Era lui, Carlo Chiesa, di professione antiquario e gran maestro restauratore, che si esibiva in quell’assolo: unica sua interpretazione della serata. Anche ul Gügia però non era contento. Avrebbe voluto che sul manifesto, assieme agli attori importanti, vi fosse anche il suo nome e interpretazione: Carlo Chiesa: il gallo. Ma l’Airoldi evidentemente non acconsentì . Per tenerlo buono gli rispose: “Scriveremo cappone invece di gallo”. Ma ul Gügia, compresa l’antifona, rinunciò, pur a malincuore.